La metafisica, il didascalismo medievale e il liturgismo orientale nel ciclo pittorico “i paesi della val di sangro” di luigi baldacci

 
“Là è la porta dei sentieri della Notte e del Giorno,
con ai due estremi un architrave e una soglia di pietra;
e la porta, eretta nell’etere, è rinchiusa da grandi battenti…
Di là, subito, attraverso la porta,
diritto per la strada maestra le fanciulle guidarono carro e cavalle.
E la Dea di buon animo mi accolse, e con la sua mano la mia mano destra prese …”
 
 
È un’esperienza singolare quella che descrive Parmenide nel suo poema “Sulla natura”, un viaggio, o più precisamente, una sorta di rapimento mistico da parte delle Eliadi, divinità fuoriuscite dalla Notte, che lo trasportano al cospetto della Dea che tutto gli rivelerà. La descrizione del viaggio, secondo alcuni studiosi, altro non è che una rappresentazione allegorica della rivelazione e dietro la figura della Dea si celerebbe, secondo Mario Untersteiner, la figura della Grande Madre propria della religiosità mediterranea preellenica o, come sostiene Luigi Ruggiu, nella molteplicità delle denominazioni della Dea si svela la dinamica di manifestazione dell’unità in molti modi, “ciascuno dei quali si mostra necessariamente connesso con l’altro e tutti insieme costituiscono la forma totale del divino (Saggio introduttivo e commento a Parmenide, Il poema della natura, Luigi Ruggiu; introduzione e traduzione di G. Reale, Milano, 1991, pag 183 s.). Parmenide, quindi, come già Omero ed Esiodo, è il ricettore di una verità rivelata, dalla divinità “a colui che sa”, l’ειδος φώς, cioè colui che già per conto suo è arrivato all’apice del sapere umano (Metafisica I. La sophia degli antichi vol. 1, Lucchetta Giulio A., Carabba, 2009). Parmenide propone un ideale di conoscenza dove l’esperienza è quella del rapimento, del viaggio metaforico che porta lontano dalla quotidianità e, attraverso la porta, simbolo ricorrente nella pittura di Luigi Baldacci, si apre a lui un’esperienza religiosa: “l’esperienza dei deboli occhi umani che si rivolgono alla verità nascosta, di modo che tutta la vita viene trasformata”, come ha sostenuto Werner Jaeger (Die Theologie der frühen griechischen Denker; trad. it. La teologia dei primi pensatori greci, di E. Pocar, Firenze, 1961). È questa l’esperienza dell’arte, l’esperienza che Baldacci propone a noi nel suo ciclo pittorico “I Paesi della Val di Sangro”: un viaggio attraverso i suoi silenzi, attraverso i suoi paesaggi interiori, le metafore, i simboli, spesso inconsci, della sua mente, che ci rivelano un mondo straordinario in cui il tempo non è tempo umano, ma tempo universale e “incorrotto”, cioè privo di qualsiasi stratificazione storica o contaminazione esterna.
La sua pittura ci riporta al significato originario dell’arte, come amava ripetere Giovanni Paolo II: “L’arte è esperienza di universalità. Non può essere solo oggetto o mezzo. È parola primitiva, nel senso che sta prima e sta al fondo di ogni altra parola. È parola dell’origine, che scruta, al di là dell’immediatezza dell’esperienza, il senso primo ed ultimo della vita”. Baldacci ci fa immergere in un universo irreale, remoto, fluttuante, frutto del suo immaginario ricco e vivace, ma anche filtrato attraverso il ricordo di qualcosa di già visto, sperimentato e sognato. “Che il segreto dell’arte sia qui? Ricordare come l’opera si è vista in uno stato di sogno, ridirla come si è vista, cercare soprattutto di ricordare. Ché forse tutto l’inventare è ricordare!” scrisse, una volta, Elsa Morante. La sua opera ci invita a non vedere semplicemente, ma ad osservare, cioè trasformare tutto ciò che compare sulla tela in visione attenta, in sguardo appassionato e appassionante, che attiva la partecipazione commossa della mente e del cuore.
È possibile, inoltre, cogliere il profondo intento narrativo del ciclo, specialmente nei riquadri istoriati, all’interno dei quali ritroviamo elementi, tracce di una storia millenaria, una storia che passa attraverso le vie della transumanza, attraverso le chiese e le abbazie, attraverso i castelli, vestigia medievali della nostra regione; le rocche, costruite con la pietra delle nostre montagne: la pietra che ben rappresenta il carattere pregnante della nostra terra, “forte e gentile”; anche la pietra, infatti, nonostante la sua durezza, si presta ad essere lavorata dalle pazienti mani degli artigiani e scalpellini della Majella; attraverso il mare e le colline dorate. Una storia di gente semplice, di pastori, di contadini, ma anche di abili artigiani e artisti che con la loro opera nel corso dei secoli hanno contribuito a scriverla. Un filone pittorico, quello narrativo di Baldacci, che si rifà al didascalismo e miniaturismo medievale, ma anche ad una tradizione meno colta e popolare: quella dei pannelli o “cartelloni” che raffiguravano le scene salienti dei racconti che i cantastorie siciliani, portavano con se nei loro spostamenti nelle piazze dei paesi.
Un’ultima nota meritano i colori, guizzanti e debordanti, anche quando circoscritti in perimetri particolari che rischierebbero di limitarne la portata cromatica. Molti critici hanno rilevato come il colore sia la cifra qualificante della pittura di Luigi Baldacci. Sono i verdi dei boschi e delle distese erbose, i gialli e gli arancioni dei riflessi del sole nei meriggi, il blu dei mari, dei laghi e dei fiumi, i bianchi delle gelide nevi, i marroni delle foglie autunnali, a disegnare i silenzi interiori del Maestro e a tratteggiare, con dolce poesia, un “liturgismo illuministico”, che ricorda molto i colori accesi ma al tempo stesso pacati, quasi solari, aspaziali e atemporali delle icone orientali.
Ed è in quest’iconostasi di colori e sfumature che si può cogliere l’anelito all’infinito e l’attesa profonda della religiosità di Baldacci, l’aspirazione a restituire l’uomo alla sua immensità e dignità, regalandoci la gioia dell’incontro con l’arte, come, splendidamente Franca Minnucci, ha sottolineato: “Baldacci ci regala il miracolo di questo incontro, il palpito sottile di un’arte che procura profondi turbamenti perché ci racconta il tempo e lo spazio prima che tutto avvenga. È lì che il Maestro conduce la sua ricerca di uomo e di artista ed è da lì forse, che tutti dovremmo ripartire. Da quella nostra originaria eternità. In quell’“ortus conclusus” dei suoi lavori e dei suoi colori, c’è il nostro Perduto Paradiso”.
 
Yuri Moretti