LUIGI BALDACCI

PITTORE, SCULTORE E PARAPSICOLOGO PESCARESE.

Critica e Riflessioni

di Dede Brutti Cinquino

Una fantasmagoria di colori dolcissimi e forti insieme nei quadri-parete di Luigi Baldaccí, colori-vita, colori natura, colori speranza, intervallati tra loro da fondali uniti nel sogno o nel ricordo di grandi del passato.
Sono tantissimi anni che seguo l’evoluzione pittorica di questo nostro Artista modernissimo nelle linee-colore, classico nel ricordo, di personaggi che narrano, tuffati nell’azzurro indaco-violetto, la loro storia ed ho sempre rilevato (al di là di ogni struttura o regola tradizionale) una intima storia del pensiero, della cultura di epoche lontane, tradotte in fantasie che mi hanno riportato ad interpreti del segno-colore dell’America latina dove ho avuto la fortuna di incontrare pittori dall’espressività alta del colore unita alla semplicità lineare della forma.
Antichi alfabeti espressi in “Lettere d’amore” al mondo riassunti nella storia colore più intensa che io abbia mai incontrato, in un volo pittorico che fa pensare all’universo, all’Assoluto, in sfondi schematizzati che raccolgono, poi, storie del passato.
Nell’opera di Luigi Baldacci, una vastissima produzione sempre più elevata nella concettualità più pura di intenti, troviamo sempre di più immagini vecchie e nuove nascoste nel colore della vita, dell’esistenza, del pensiero….

Dede Brutti Cinquino

di Franca Minnucci

La poetica pittorica di Baldacci è, da sempre, quella di un raffinato lirismo coloristico; l’artista pone nel colore, nella densità dei toni, negli accostamenti dei piani cromatici la sua ricerca esistenziale e culturale: sotto quel magma colorato, denso e rutilante scorre la vita, sia quando è trasfigurata in magiche e allucinate parvenze sia quando è raccontata attraverso le tessere colorate di un mosaico in un dialogo incessante e continuo di rimandi, di risposte, di attese.
Nelle sue composizioni c’è l’impostazione astratta di un teorema che non è mai astrattismo, schematismo ma, al contrario, ed è questo che fa la differenza, è ricerca dei valori assoluti ed irrevocabili dello spirito umano; la consapevolezza della caducità della cosa terrena, il mistero, la pena.
Le figure che abitano i lavori del Maestro Baldacci sono da sempre, anche nella prima produzione, a metà fra uomini e divinità, modellate dalla luce e dal colore: in pose inverosimili, esse provengono da un sogno lontano, da un inconscio mistero-collettivo. Penso a Picchidè del 1955, “Ragazza di Pianella”, a quei tratti di matita pastellata a cui affida l’espressione inquieta ed ironica, enigmatica e indecifrabile di una giovane donna. Forte, con uno sguardo lungo ed intelligente, provocante e provocatorio, è già a metà fra le linee pure del classicismo e la più moderna avanguardia.
Tutte le figure umane di Baldacci hanno le stesse tinte livide ed affondano nei bianchi, nei grigi, nei seppia di un mondo depurato, irreale, cancellato, lontano. Uomini, donne e bambini quasi sempre senza un volto definito, come se la metafora pittorica dell’artista non sopportasse una somatica, occhi, bocca, naso: le forme cioè di un ritratto.
Quando queste ci sono, esse sono precise e curate, forti e potenti e la matita incide come un bisturi nell’anima e nella mente e allora davanti ai nostri occhi, si staglia duro e inquieto il volto di Z’ingiccucci del 1963. La forza, la potenza delle figure umane è sempre in Baldacci il risultato di una profondità psicologica, dell’intensità del loro vissuto, anche quando sono appena accennate in rapide macchie di colore o disegnate con leggeri profili, esse provengono da un mondo oscuro e visionario. Sono statue, ed esprimono una forza primigenia, ieratica, solenne; anche gli alberi, e gli animali in Baldacci sono “statue” e come gli uomini, di queste, hanno la sospensione, l’immunità, l’eternità.
Lo spirito creativo del Maestro è classico, mediterraneo e di quel mondo lui, come un rabdomante, ha scoperto una linfa che lo nutre e lo vivifica: il colore, il colore assoluto, un colore “severo”, palpitante mai statico, anche quando è chiuso in forme geometriche esso galleggia su una superficie lunare, atemporale, aspaziale.
È il colore impastato delle vetrate medioevali nelle chiese gotiche è il cobalto dei cieli, i blu dei mari, le ocre della terra, i verdi degli orti e degli ulivi. Linee continue di ininterrotti orizzonti, che si perdono fra cielo e mare, fra terra e aria in un colore inflessibile, esigente, pieno di silenzio.
Nell’ultima produzione si coglie infatti soprattutto la ricerca del silenzio di cui Baldacci sente il mistero ma anche il senso solenne della dimensione cosmica degli elementi. E così in un tempo universale, in uno spazio infinito, nel silenzio più totale, alberi di cielo si allungano su onde di terra e si incontrano in respiri d’acqua in un continuo flusso di metafore, simboli, allegorie a ricostruire la ciclicità e l’unicum da cui provengono: in quelle brecce aperte, nei tagli di colore si sente la maestà immutabile del tempo che non è tempo umano, ma un tempo universale, prima cioè che il tempo della storia lo corrompa.
Lo sguardo di Baldacci è rivolto al cielo, all’aria, al mare, alla terra, ne coglie la luce che cattura con i suoi colori e che ci restituisce attraverso la tela, scegliendo una tecnica, soprattutto negli ultimi lavori, che ha già in sé una funzione espressiva latente: l’acrilico appunto.
Il colore acrilico, coinvolge l’intero quadro, quindi non una figura emergente, non un punto di vista ma la stessa forza espressiva, identica, da tutti i punti di vista. L’acrilico esprime infatti, l’esigenza di una velocità-vivacità nella trasformazione formale perché vuole cogliere, istantaneamente, il rapporto di mimesi, l’incontro tra l’oggetto mentale e le interazione dei vari caratteri del linguaggio pittorico. L’artista teme la dispersione semantica del linguaggio vuole l’opera nella sua interezza: il lavoro senza una “evidenza” ma dove tutti gli elementi hanno lo stesso spessore concettuale ed è lui a porre la gradualità, le proporzioni, le ascisse e le ordinate degli elementi dell’opera; la narrazione, il racconto.
È arte totale quella di Baldacci che prende l’uomo tutto e lo restituisce all’immensità del suo mistero e fa riemergere con la leggerezza della poesia quel fiume carsico, sotterraneo dell’irrazionale e dell’inconscio. C’è un pathos in Baldacci, uno stupore attonito, di rispetto, di coscienza, una pietas a questo nostro vivere.
Se crediamo che la dimensione poetica sia ancora una misura possibile per cogliere il concetto di intuizione e creazione artistica, allora non possiamo fare a meno di abitare i luoghi della poetica-pittorica di Baldacci come se fossero la misura di una habitat interiore dove il “trasalimento”, lo “stupore”, rileva l’incontro che si rinnova di volta in volta fra la nostra anima e il mondo dell’artista.
Baldacci ci regala così il miracolo di questo incontro, il palpito sottile di un’arte che procura profondi turbamenti perché ci racconta il tempo e lo spazio prima che tutto avvenga.
È lì che il Maestro conduce la sua ricerca di uomo e di artista ed è da lì forse, che tutti dovremmo ripartire. Da quella nostra originaria eternità. In quell’“ortus conclusus” dei suoi lavori e dei suoi colori, c’è il nostro Perduto Paradiso Terrestre.

Franca Minnucci

di Giorgio Segato

Luigi Baldacci è un artista, pittore appassionato, e indubbiamente ‘personaggio’ che interpreta fino in fondo il suo ruolo di artista e di pittore. Voglio dire che il suo fare proviene tutto, o quasi, dall’ascolto delle voci di dentro, dalle emozioni che egli lascia ‘montare’ e lievitare fino a richiedere con urgenza un medium espressivo adeguato; avrebbe potuto essere la parola, e invece è stato il disegno, la pittura e, recentemente, anche la tridimensionalità della scultura, come metafora diretta dell’uomo e della condizione esistenziale.
In questo senso le sue figurazioni sono autenticamente sue ‘creature’, proprie del suo immaginario fertile e reattivo, ‘sensitivo’ e fervente di desiderio di raccontare, di raccontarsi, di dipingere, di scrivere, di manipolare, in una visionarietà che inventa simbologie come ‘chiavi’ di comprensione: non sempre chiare nei significati ultimi, segrete e segretate, un po’ come le Sibille, gli Oracoli, gli indovini che sul tema proposto rispondevano con una sorta di ‘gramelot’ alla Dario Fo, in cui si coglieva qualche parola chiave che pareva dare un significato al discorso misterico e ciascuno seguiva un proprio filo.
Baldacci fin dalle prime esperienze, prevalentemente di disegno a matita agli inizi degli anni Cinquanta, quasi sostitutive, a livello psicologico, forse di una di una più faticata verbalizzazione, sentiva e sente il racconto attraversargli la mente, il corpo e arrivare alle mani, diventare fremito delle dita, ed ogni contatto con la materia (il pennello, il colore, la penna e l’inchiostro, la creta o il gesso) esigere una propria ‘calligrafia’, una ricerca di forma bella, semplice, diretta, senza vacui o vaghi intellettualismi o complicati concettualismi seducenti, nel senso letterale che portano da altra parte, ingannano la mente.
Le sue figure sono creature che abitano, a volte invadono, i suoi ‘silenzi’, i suoi paesaggi interiori: non quelli della natura naturans, le vedute, ma quelli che immagina a occhi chiusi, gli spazi dell’anima, si dice di solito, dell’anima fonda, individuale e collettiva, quelli della psiche, infinitamente più vasti e più ricchi di quelli esterni. Occorre saper ascoltare e saper guardare: cioè non semplicemente ‘vedere’ (che è di tutti quelli che hanno occhi), ma innescare la partecipazione della mente e del cuore, attivare i terminali nervosi ed emotivi, mettendo a fuoco esperienze, suggestioni, premonizioni, ricordi, elaborazioni sensitive, percettive ed intellettive.
Non si tratta di ‘ragionamenti’ ma del lasciar aggallare e diventare visione, sguardo complice ed intelligente tutto ciò che costituisce i sedimenti consci, preconsci ed inconsci della nostra psiche, della nostra anima individuale tentando il viaggio che da dentro il pozzo psichico conduce all’infinito dell’anima collettiva, dell’esperienza totale.
Qualsiasi opera, qualsiasi capolavoro, nulla vale se non c’è ‘uno sguardo’ che la comprende e la valorizza in quanto coltivazione della sensibilità, dell’accoglienza, dell’intelligenza, del sentimento, della conoscenza.
La storia dell’arte è in verità la storia dello sguardo con cui si vedono le opere d’arte, Senza di esso ogni discorso non è altro che letteratura rimasticata, chiacchiere.
Le ‘creature’ di Luigi Baldacci vogliono essere elementari e semplici, originali frutti del suo intenso lavorìo intimo, che non ha avuto maestri, non ha avuto scuola, non ha conosciuto accademia, ma ha risposto con entusiasmo esistenziale a un’urgenza espressiva ingenua e poi sempre più coltivata, espansa, motivata.
Si mostrano non di rado quasi deformate, certamente ‘trasformate’ da una qualità giocosa e insieme ricercatamente caricaturale e fortemente simbolica, metaforica, sempre tese a sollecitare un ascolto, una lettura che sta dietro le immagini, più personaggi del sogno, della visionarietà onirica, che figure concrete; e proprio per questo più ‘essenze’ che apparenze, con una certa enfasi teatrale nelle figure (si veda l’interessantissimo ciclo storico della fine degli anni Sessanta, per la sala Consigliare di Pescara, con la storia della città in otto grandi tele) e decorativa nel caleidoscopico gioco degli elementi simbolici (circolari, quadrati, rettangolari) che sempre più le accompagnano nel racconto sintetico o agiscono da sole (come sui murales) in distribuzioni e sovrapposizioni con la vivacità cromatica delle ‘figurine’ che da ragazzi gettavamo in aria per il gioco di ‘testa o croce’.
Qui, però, c’è il suo (di Baldacci intendo) alfabeto segreto, una sempre più ricca sequenza segnaletica derivata da emblemi di culture diverse, dal lontano oriente alla nuove indie, dall’area mediterranea all’Europa celtica, dall’Africa all’Oceania.
E’ un codice, una crittografia, che appartiene interamente a Baldacci e di cui solo lui conosce tutto il significato (come la Sibilla o l’Oracolo), ma non c’è chi non colga subito che si tratta di una segnaletica per umani, che invita, in modo semplice e garbato, cromaticamente accattivante, a ‘slargare’ i sensi, gli orizzonti visivi e gli spazi emotivi, a guardare, come dicevo, e a sentire.
Il lavoro, la ricerca espressiva e narrativa di Luigi Baldacci durano ormai da oltre mezzo secolo – e questa monografia lo testimonia egregiamente, nel senso di un’attenta, minuziosa ricomposizione del percorso, del fil rouge che comincia con la ‘passione’, inspiegabilmente cresciuta dentro, per necessità, con urgenza e diletto, del disegno che col segno leggero della matita inventa spazi e profondità, volumi e figure sul foglio bidimensionale, come un tracciato della mente, un itinerario dei sensi: inizialmente stentato, arduo, ripetuto, a volte anche con forza piuttosto che cancellato, anche ‘irritando’ il foglio, tormentando la forma, la figura, perché il segno precedente costituisce comunque un riferimento necessario ad abituare la mano, a renderla agile e corsiva nel tracciare le ‘scenografie’ della propria memoria e della propria immaginazione. Questa è costantemente sollecitata dai sedimenti, dalle stratificazioni, dalle emergenze intime di una personalità dai nervi chiaramente scoperti, ‘scorticati’, indifesi e altamente prensili, e che sente (e a volte rappresenta) l’uomo come concentrazione e fonte di emanazione di energia rispetto a una realtà che tende a smarrire o ha già smarrito, impoverito, le capacità dei terminali sensitivi, dando troppo spazio alla visualizzazione meccanica ed elettronica, alla virtualità delle esperienze.
Per Luigi Baldacci dipingere non è, dunque, ritrarre la realtà, ripresentare la natura, ma è soprattutto una lenta esplorazione, coltivazione e rielaborazione di esperienze di vita, di storia, di conoscenza del territorio, dell’ambiente in cui ritrovare le radici profonde dell’emozione esistenziale e culturale, immagini che a volte appartengono all’infanzia ora all’adolescenza, ora all’adulto ridiventato fanciullo, ma sempre come sentimento del tempo, atmosfera poetica, lirica e di riaffermazione dell’umano come misura delle cose e degli eventi.
Che questa impostazione ‘etica’ (che mi rammenta la tenace autoformazione del padovano Tono Zancanaro) del fare di Luigi Baldacci sia autentica ed efficace è testimoniato, a mio avviso, dal già lungo percorso e anche dall’intensa collaborazione e dedizione della moglie e dei figli, sempre solleciti a dare un personale contributo di sostegno creativo ed operativo.

Giorgio Segato