di Giorgio Segato

Luigi Baldacci è un artista, pittore appassionato, e indubbiamente ‘personaggio’ che interpreta fino in fondo il suo ruolo di artista e di pittore. Voglio dire che il suo fare proviene tutto, o quasi, dall’ascolto delle voci di dentro, dalle emozioni che egli lascia ‘montare’ e lievitare fino a richiedere con urgenza un medium espressivo adeguato; avrebbe potuto essere la parola, e invece è stato il disegno, la pittura e, recentemente, anche la tridimensionalità della scultura, come metafora diretta dell’uomo e della condizione esistenziale.
In questo senso le sue figurazioni sono autenticamente sue ‘creature’, proprie del suo immaginario fertile e reattivo, ‘sensitivo’ e fervente di desiderio di raccontare, di raccontarsi, di dipingere, di scrivere, di manipolare, in una visionarietà che inventa simbologie come ‘chiavi’ di comprensione: non sempre chiare nei significati ultimi, segrete e segretate, un po’ come le Sibille, gli Oracoli, gli indovini che sul tema proposto rispondevano con una sorta di ‘gramelot’ alla Dario Fo, in cui si coglieva qualche parola chiave che pareva dare un significato al discorso misterico e ciascuno seguiva un proprio filo.
Baldacci fin dalle prime esperienze, prevalentemente di disegno a matita agli inizi degli anni Cinquanta, quasi sostitutive, a livello psicologico, forse di una di una più faticata verbalizzazione, sentiva e sente il racconto attraversargli la mente, il corpo e arrivare alle mani, diventare fremito delle dita, ed ogni contatto con la materia (il pennello, il colore, la penna e l’inchiostro, la creta o il gesso) esigere una propria ‘calligrafia’, una ricerca di forma bella, semplice, diretta, senza vacui o vaghi intellettualismi o complicati concettualismi seducenti, nel senso letterale che portano da altra parte, ingannano la mente.
Le sue figure sono creature che abitano, a volte invadono, i suoi ‘silenzi’, i suoi paesaggi interiori: non quelli della natura naturans, le vedute, ma quelli che immagina a occhi chiusi, gli spazi dell’anima, si dice di solito, dell’anima fonda, individuale e collettiva, quelli della psiche, infinitamente più vasti e più ricchi di quelli esterni. Occorre saper ascoltare e saper guardare: cioè non semplicemente ‘vedere’ (che è di tutti quelli che hanno occhi), ma innescare la partecipazione della mente e del cuore, attivare i terminali nervosi ed emotivi, mettendo a fuoco esperienze, suggestioni, premonizioni, ricordi, elaborazioni sensitive, percettive ed intellettive.
Non si tratta di ‘ragionamenti’ ma del lasciar aggallare e diventare visione, sguardo complice ed intelligente tutto ciò che costituisce i sedimenti consci, preconsci ed inconsci della nostra psiche, della nostra anima individuale tentando il viaggio che da dentro il pozzo psichico conduce all’infinito dell’anima collettiva, dell’esperienza totale.
Qualsiasi opera, qualsiasi capolavoro, nulla vale se non c’è ‘uno sguardo’ che la comprende e la valorizza in quanto coltivazione della sensibilità, dell’accoglienza, dell’intelligenza, del sentimento, della conoscenza.
La storia dell’arte è in verità la storia dello sguardo con cui si vedono le opere d’arte, Senza di esso ogni discorso non è altro che letteratura rimasticata, chiacchiere.
Le ‘creature’ di Luigi Baldacci vogliono essere elementari e semplici, originali frutti del suo intenso lavorìo intimo, che non ha avuto maestri, non ha avuto scuola, non ha conosciuto accademia, ma ha risposto con entusiasmo esistenziale a un’urgenza espressiva ingenua e poi sempre più coltivata, espansa, motivata.
Si mostrano non di rado quasi deformate, certamente ‘trasformate’ da una qualità giocosa e insieme ricercatamente caricaturale e fortemente simbolica, metaforica, sempre tese a sollecitare un ascolto, una lettura che sta dietro le immagini, più personaggi del sogno, della visionarietà onirica, che figure concrete; e proprio per questo più ‘essenze’ che apparenze, con una certa enfasi teatrale nelle figure (si veda l’interessantissimo ciclo storico della fine degli anni Sessanta, per la sala Consigliare di Pescara, con la storia della città in otto grandi tele) e decorativa nel caleidoscopico gioco degli elementi simbolici (circolari, quadrati, rettangolari) che sempre più le accompagnano nel racconto sintetico o agiscono da sole (come sui murales) in distribuzioni e sovrapposizioni con la vivacità cromatica delle ‘figurine’ che da ragazzi gettavamo in aria per il gioco di ‘testa o croce’.
Qui, però, c’è il suo (di Baldacci intendo) alfabeto segreto, una sempre più ricca sequenza segnaletica derivata da emblemi di culture diverse, dal lontano oriente alla nuove indie, dall’area mediterranea all’Europa celtica, dall’Africa all’Oceania.
E’ un codice, una crittografia, che appartiene interamente a Baldacci e di cui solo lui conosce tutto il significato (come la Sibilla o l’Oracolo), ma non c’è chi non colga subito che si tratta di una segnaletica per umani, che invita, in modo semplice e garbato, cromaticamente accattivante, a ‘slargare’ i sensi, gli orizzonti visivi e gli spazi emotivi, a guardare, come dicevo, e a sentire.
Il lavoro, la ricerca espressiva e narrativa di Luigi Baldacci durano ormai da oltre mezzo secolo – e questa monografia lo testimonia egregiamente, nel senso di un’attenta, minuziosa ricomposizione del percorso, del fil rouge che comincia con la ‘passione’, inspiegabilmente cresciuta dentro, per necessità, con urgenza e diletto, del disegno che col segno leggero della matita inventa spazi e profondità, volumi e figure sul foglio bidimensionale, come un tracciato della mente, un itinerario dei sensi: inizialmente stentato, arduo, ripetuto, a volte anche con forza piuttosto che cancellato, anche ‘irritando’ il foglio, tormentando la forma, la figura, perché il segno precedente costituisce comunque un riferimento necessario ad abituare la mano, a renderla agile e corsiva nel tracciare le ‘scenografie’ della propria memoria e della propria immaginazione. Questa è costantemente sollecitata dai sedimenti, dalle stratificazioni, dalle emergenze intime di una personalità dai nervi chiaramente scoperti, ‘scorticati’, indifesi e altamente prensili, e che sente (e a volte rappresenta) l’uomo come concentrazione e fonte di emanazione di energia rispetto a una realtà che tende a smarrire o ha già smarrito, impoverito, le capacità dei terminali sensitivi, dando troppo spazio alla visualizzazione meccanica ed elettronica, alla virtualità delle esperienze.
Per Luigi Baldacci dipingere non è, dunque, ritrarre la realtà, ripresentare la natura, ma è soprattutto una lenta esplorazione, coltivazione e rielaborazione di esperienze di vita, di storia, di conoscenza del territorio, dell’ambiente in cui ritrovare le radici profonde dell’emozione esistenziale e culturale, immagini che a volte appartengono all’infanzia ora all’adolescenza, ora all’adulto ridiventato fanciullo, ma sempre come sentimento del tempo, atmosfera poetica, lirica e di riaffermazione dell’umano come misura delle cose e degli eventi.
Che questa impostazione ‘etica’ (che mi rammenta la tenace autoformazione del padovano Tono Zancanaro) del fare di Luigi Baldacci sia autentica ed efficace è testimoniato, a mio avviso, dal già lungo percorso e anche dall’intensa collaborazione e dedizione della moglie e dei figli, sempre solleciti a dare un personale contributo di sostegno creativo ed operativo.

Giorgio Segato

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