di Franca Minnucci

La poetica pittorica di Baldacci è, da sempre, quella di un raffinato lirismo coloristico; l’artista pone nel colore, nella densità dei toni, negli accostamenti dei piani cromatici la sua ricerca esistenziale e culturale: sotto quel magma colorato, denso e rutilante scorre la vita, sia quando è trasfigurata in magiche e allucinate parvenze sia quando è raccontata attraverso le tessere colorate di un mosaico in un dialogo incessante e continuo di rimandi, di risposte, di attese.
Nelle sue composizioni c’è l’impostazione astratta di un teorema che non è mai astrattismo, schematismo ma, al contrario, ed è questo che fa la differenza, è ricerca dei valori assoluti ed irrevocabili dello spirito umano; la consapevolezza della caducità della cosa terrena, il mistero, la pena.
Le figure che abitano i lavori del Maestro Baldacci sono da sempre, anche nella prima produzione, a metà fra uomini e divinità, modellate dalla luce e dal colore: in pose inverosimili, esse provengono da un sogno lontano, da un inconscio mistero-collettivo. Penso a Picchidè del 1955, “Ragazza di Pianella”, a quei tratti di matita pastellata a cui affida l’espressione inquieta ed ironica, enigmatica e indecifrabile di una giovane donna. Forte, con uno sguardo lungo ed intelligente, provocante e provocatorio, è già a metà fra le linee pure del classicismo e la più moderna avanguardia.
Tutte le figure umane di Baldacci hanno le stesse tinte livide ed affondano nei bianchi, nei grigi, nei seppia di un mondo depurato, irreale, cancellato, lontano. Uomini, donne e bambini quasi sempre senza un volto definito, come se la metafora pittorica dell’artista non sopportasse una somatica, occhi, bocca, naso: le forme cioè di un ritratto.
Quando queste ci sono, esse sono precise e curate, forti e potenti e la matita incide come un bisturi nell’anima e nella mente e allora davanti ai nostri occhi, si staglia duro e inquieto il volto di Z’ingiccucci del 1963. La forza, la potenza delle figure umane è sempre in Baldacci il risultato di una profondità psicologica, dell’intensità del loro vissuto, anche quando sono appena accennate in rapide macchie di colore o disegnate con leggeri profili, esse provengono da un mondo oscuro e visionario. Sono statue, ed esprimono una forza primigenia, ieratica, solenne; anche gli alberi, e gli animali in Baldacci sono “statue” e come gli uomini, di queste, hanno la sospensione, l’immunità, l’eternità.
Lo spirito creativo del Maestro è classico, mediterraneo e di quel mondo lui, come un rabdomante, ha scoperto una linfa che lo nutre e lo vivifica: il colore, il colore assoluto, un colore “severo”, palpitante mai statico, anche quando è chiuso in forme geometriche esso galleggia su una superficie lunare, atemporale, aspaziale.
È il colore impastato delle vetrate medioevali nelle chiese gotiche è il cobalto dei cieli, i blu dei mari, le ocre della terra, i verdi degli orti e degli ulivi. Linee continue di ininterrotti orizzonti, che si perdono fra cielo e mare, fra terra e aria in un colore inflessibile, esigente, pieno di silenzio.
Nell’ultima produzione si coglie infatti soprattutto la ricerca del silenzio di cui Baldacci sente il mistero ma anche il senso solenne della dimensione cosmica degli elementi. E così in un tempo universale, in uno spazio infinito, nel silenzio più totale, alberi di cielo si allungano su onde di terra e si incontrano in respiri d’acqua in un continuo flusso di metafore, simboli, allegorie a ricostruire la ciclicità e l’unicum da cui provengono: in quelle brecce aperte, nei tagli di colore si sente la maestà immutabile del tempo che non è tempo umano, ma un tempo universale, prima cioè che il tempo della storia lo corrompa.
Lo sguardo di Baldacci è rivolto al cielo, all’aria, al mare, alla terra, ne coglie la luce che cattura con i suoi colori e che ci restituisce attraverso la tela, scegliendo una tecnica, soprattutto negli ultimi lavori, che ha già in sé una funzione espressiva latente: l’acrilico appunto.
Il colore acrilico, coinvolge l’intero quadro, quindi non una figura emergente, non un punto di vista ma la stessa forza espressiva, identica, da tutti i punti di vista. L’acrilico esprime infatti, l’esigenza di una velocità-vivacità nella trasformazione formale perché vuole cogliere, istantaneamente, il rapporto di mimesi, l’incontro tra l’oggetto mentale e le interazione dei vari caratteri del linguaggio pittorico. L’artista teme la dispersione semantica del linguaggio vuole l’opera nella sua interezza: il lavoro senza una “evidenza” ma dove tutti gli elementi hanno lo stesso spessore concettuale ed è lui a porre la gradualità, le proporzioni, le ascisse e le ordinate degli elementi dell’opera; la narrazione, il racconto.
È arte totale quella di Baldacci che prende l’uomo tutto e lo restituisce all’immensità del suo mistero e fa riemergere con la leggerezza della poesia quel fiume carsico, sotterraneo dell’irrazionale e dell’inconscio. C’è un pathos in Baldacci, uno stupore attonito, di rispetto, di coscienza, una pietas a questo nostro vivere.
Se crediamo che la dimensione poetica sia ancora una misura possibile per cogliere il concetto di intuizione e creazione artistica, allora non possiamo fare a meno di abitare i luoghi della poetica-pittorica di Baldacci come se fossero la misura di una habitat interiore dove il “trasalimento”, lo “stupore”, rileva l’incontro che si rinnova di volta in volta fra la nostra anima e il mondo dell’artista.
Baldacci ci regala così il miracolo di questo incontro, il palpito sottile di un’arte che procura profondi turbamenti perché ci racconta il tempo e lo spazio prima che tutto avvenga.
È lì che il Maestro conduce la sua ricerca di uomo e di artista ed è da lì forse, che tutti dovremmo ripartire. Da quella nostra originaria eternità. In quell’“ortus conclusus” dei suoi lavori e dei suoi colori, c’è il nostro Perduto Paradiso Terrestre.

Franca Minnucci

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