Luigi Baldacci.
Anno 1947. E l’indovino mi disse. Come tutto ebbe inizio, in un pomeriggio assolato del mese di agosto.
Colli Innamorati, zona prevalentemente agricola della periferia di Pescara, attraversata da una strada lunga ed erta, dove le case si raggruppano intorno alle loro aie, denominate secondo i nomi dei proprietari: aia Cecamore dal cognome di mia madre, aia Baldacci dal cognome di mio padre, e via dicendo.
Nell’anno 1947, avevo già compiuto dieci anni e, in un pomeriggio assolato del mese di agosto, nell’aia Baldacci, insieme ad altri bambini, giocavo all’ombra delle nostre case. Ricordo che, a volte, ci riunivamo per giocare in venti o venticinque “guagiluni”.
Quel pomeriggio arrivò dalla strada principale un vecchio piuttosto affaticato, con una bisaccia a tracollo e con un fazzoletto blu a fiorellini bianchi con il quale si asciugava il sudore dalla fronte mentre camminava. Riconoscendolo, gridammo tutti all’unisono: «E’ l’induvine della Cilire.»
Lui, sempre ansimante e affannato ci disse: «Guagliù, vi vulite fa legge la venture?»
Qualche ragazzo urlò: «Nin tinime li soldi.»
In silenzio si girò per andare via, ma io, seduto sul terzo gradino della scala esterna di casa mia, allungando la mano destra con il palmo all’insù, dissi: «A zizì liggimili a me!»
Si avvicinò e guardando la mia mano, sentenziò: «Guagliù, tu divindi chiù brave di me e divindi pure n’artiste.»
Tutti ridendo gridarono: «Ma chi è l’artiste?»
Forse nemmeno lui lo sapeva.
Ma lui era l’induvine della Cilire, paese arroccato alle pendici della Maiella che, nei giorni sereni al tramonto del sole, mostra il profilo della “bella addormentata”.